"SCUOLA e MEDICALIZZAZIONE" un articolo di Chiara Gazzola
Pubblichiamo un articolo di Chiara Gazzola dal titolo “Scuola e medicalizzazione” uscito su Arivista n°442 aprile 2020
“Scuola e medicalizzazione” di Chiara Gazzola
La scuola italiana è ben lungi
dall’essere una comunità educante. Tagli alle risorse e aumento di
certificazioni dimostrano quanto le difficoltà espresse da
ragazze/ragazzi vengano lette come sintomi di malattie e affrontate in
termini medici e farmacologici.
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La nostra epoca, a causa di una
proficua pianificazione, è caratterizzata da un diffuso malessere
esistenziale e dal dilagare di menzogne, indorate dal termine
anglosassone fake news.
Il trionfo del neoliberismo invade
anche tutti i contesti educativi e formativi. La scuola, perdendo i
valori pedagogici di attenzione ai diritti e ai bisogni, acquisisce
peculiarità aziendali evidenziate da neologismi (debiti, crediti,
profitto, competenze, ottimizzazione dei tempi, raggiungimento di
risultati): i continui tagli alle risorse inducono a un’elevata
competizione fra i plessi con “offerte formative” di addestramento al
mercato del lavoro, test di valutazione standardizzati, abolizione di
interdisciplinarietà ed elaborazione critica delle conoscenze.
Nella scuola primaria, abolite le
compresenze di insegnanti, l’approccio al sapere basato sulla ricerca è
spesso sostituito da apprendimenti ottenuti in tempi ristretti e
valutati attraverso quiz. Si innesca una concorrenzialità irrispettosa
delle complessità tipiche dell’età evolutiva che produce ansia da
prestazione e discriminazione fra chi emerge e chi è costretto nelle
retrovie.
La tendenza a svilire e soppiantare
il sapere umanistico, pedagogia compresa, a favore di applicazioni
tecnicistiche si origina dal criterio EBE (Evidence based education,
“istruzione basata sull’evidenza”), orientamento ideologico nato in
Inghilterra negli anno 1980-’90 sotto i governi Thatcher e Blair, con
l’obiettivo di circoscrivere ogni specializzazione accademica
all’interno di esigenze produttive. Depauperando la relazione educativa e
i percorsi di crescita anche la libertà professionale dell’insegnante è
minacciata da un’omologazione che produce un divario fra chi tira i
remi in barca e chi sceglie di assumersi gravose responsabilità.
Questo criterio trova coerenza in
una selezione della popolazione scolastica, tanto che più si
impoveriscono le risorse all’istruzione più aumentano le certificazioni
(diagnosi neuropsichiatriche, BES – Bisogni Educativi Speciali, DSA –
Disturbi Specifici dell’Apprendimento, cioè dislessie, discalculie ecc.
che in Italia sfiorano il 4% della popolazione contraddicendo i
riscontri della letteratura neuroscientifica: quanti i falsi positivi?).
Si concretizza un’ingerenza delle istituzioni clinico-sanitarie su
quelle scolastiche. Il determinismo organicista trova così una sponda
fertile per diagnosticare e “curare” soggetti socialmente deboli,
discriminando scelte di vita e vincolando approcci pedagogici.
Il coinvolgimento al sapere
In alcuni progetti scolastici e
nelle circolari ministeriali si riscontrano ripetutamente lemmi
avvincenti, con un’insistenza tale da farli corrispondere ai loro
significati opposti. Che senso ha la “soggettività” quando diventa
specchio di imposizione di uniformità? È una menzogna affermare che il
rispetto per le soggettività debba prevedere un Piano Didattico
Personalizzato (PDP) in quanto l’attenzione alle singole esigenze
dovrebbe essere intrinseca ad ogni relazione educativa, senza supporti
vincolanti. I PDP inducono a ridurre le aspettative tramite strumenti
compensativi e dispensativi, producono uno stigma che tramutano una
difficoltà momentanea (ad es. la sofferenza dovuta a un trauma, a un
lutto o altre esperienze infelici) in cronicità, cioè in un giudizio
permanente.
La correlazione fra basso
rendimento scolastico e deficit intellettivo/disagio socio-economico è
una forzatura ideologica: molte esperienze pedagogiche dimostrano che
quando la relazione educativa sa offrire i giusti stimoli, senza imporre
criteri formativi e valutativi, il coinvolgimento al sapere si ravviva
spontaneamente. Eppure il basso rendimento scolastico viene spesso
associato a “comportamenti non gestibili”, diventa cioè un sintomo da
ricondurre a un deficit del bambino/a, deresponsabilizzando la
didattica.
La “disabilità intellettiva”,
nomenclatura ereditata dal DSM-5 (manuale delle malattie mentali, quinta
edizione) in sostituzione del “ritardo mentale”, copre il 68,4% delle
disabilità certificate.
Nelle cartelle cliniche
neuropsichiatriche si trovano espressioni come: deficit di felicità;
scarso senso di colpa; difficoltà di codifica delle informazioni
sociali; disordine dell’identità; carenza di adattabilità; reazione
incontrollata di fronte alle frustrazioni; deficit di empatia;
manifestazioni emotive povere/eccessive; propensione innaturale a
lasciare la propria patria, quest’ultima dedicata a minori stranieri non
accompagnati. C’è da stupirsi se il 12% delle certificazioni riguarda
le nuove generazioni migranti?
Minkowski definì l’anomalia come
“un elemento di variazione individuale che impedisce a due esseri di
potersi sostituire in modo completo”, proponendo un approccio filosofico
in grado di superare la dicotomia sano/patologico per affermare quanto
sia ipocrita l’imposizione di un giudizio conformante e quanto
autoritario il voler ricondurre i comportamenti a una giustezza assoluta
che faccia coincidere la normalità con la verità.
Il tentativo di dare una
codificazione scientifica alle anomalie di comportamento è vecchio
quanto la psichiatria ma, essendo questo un ambito prettamente
culturale, le dimostrazioni si avvalgono di giudizi morali che diventano
clinici per un atto di magia del marketing. Del resto è il DSM (il
manuale delle malattie mentali redatto dalla psichiatria americana) a
dichiararlo: nella sua quinta edizione del 2013 si legge: “Le cause
organiche sono ancora sconosciute”. Non a caso la psichiatria è l’unica
specializzazione medica che rende ufficiali le patologie soltanto quando
ha a disposizione la molecola individuata come farmaco elettivo. Fra
gli esempi più noti il metilfenidato (MPH), brevettato nel 1954 dalla
Ciba-Geigy; negli anni ’70 negli USA vengono diagnosticati 150.000 casi
di deficit attentivo; nel 1980 il DSM-III include questa patologia
(ADD), da curare con MPH, alla quale nel 1994 il DSM-IV aggiunge
l’iperattività (ADHD). Allargati i criteri diagnostici, nel 1998 si
raggiungono i 6 milioni di minori curati con una sostanza che tuttora
l’OMS classifica nella stessa tabella delle molecole psicoattive più
nocive; gli ultimi dati delle prescrizioni americane si avvicinano agli
11 milioni, a partire dai 2 anni di età, ma le cifre si fanno via via
imprecise a causa della tendenza a descrivere comorbidità (diagnosi
multiple) con conseguente cocktail farmacologico.
Effetti collaterali molto gravi
Il giro d’affari degli
psicofarmaci è talmente elevato che i bilanci delle case produttrici
preventivano cause legali e risarcimenti. Questa tendenza è esportata in
molti Paesi nonostante aumentino le voci critiche della pediatria,
della biologia e della pedagogia; in Italia l’ADHD funge da spartiacque
per altre certificazioni, i questionari per lo screening – rinnegati dai
medesimi autori dopo anni di diffusione – nei documenti ufficiali di
casa nostra sono considerati “strumenti oggettivi”. I fautori della
sperimentazione (screening nelle scuole) dei primi anni 2000, che ha
riportato nelle farmacie il MPH, sono tuttora i responsabili di Linee
guida, Protocolli, Registri dove si afferma che “la mancata
disponibilità di interventi psico-educativi non deve essere causa di
ritardo nell’inizio della terapia farmacologica”.
Il Registro ADHD è obbligatorio
dopo la declassazione del farmaco, ma paradossalmente nel Registro non
vengono monitorati tutti i minori ai quali viene prescritto, ma soltanto
quelli sottoposti anche a terapia psico-educativa (“trattamento
combinato”). In attesa dei dati completi, ci sono pressioni sul
Ministero affinché tale Registro venga abolito.
Tutti i dati sul consumo di
psicofarmaci in età pediatrica rilevano un aumento esponenziale:
l’European Journal of Neuropsychopharmacology, limitatamente agli
antidepressivi, denuncia un 40% di incremento in Europa fra il 2005 e il
2012; altri studi confermano questa realtà specificando quanto le
percentuali siano sottostimate a causa del ricorso a prescrizioni
private o ad acquisti via internet. Queste molecole assunte nell’età
evolutiva producono effetti collaterali molto gravi e ledono gli ormoni
della crescita; le conseguenze delle cure ormonali supplettive sono
ancora poco documentate dalla letteratura medica.
Mentre la verità sui risvolti
medicalizzanti ha ancora lati oscuri, raccogliamo le menzogne dei
responsabili dei protocolli italiani sull’ADHD quando affermano: “Gli
effetti indesiderati sono modesti e facilmente gestibili”, discostandosi
nettamente dai giudizi della Food & Drug Administration quando
elenca: crisi maniacali e depressive con tentativi di suicidio, gravi
affezioni cardiache, diabete, ictus e morte improvvisa.
Le circolari del Ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (Miur) identificano le
istituzioni scolastiche come “comunità educanti”, ma se così fosse
sarebbero il luogo privilegiato dell’incontro, del dialogo, della
scoperta, della creatività dove l’interscambio di dubbi, riflessioni e
progettualità non riproponga la disparità verticistica fra chi sa e chi
non sa. Luoghi dove educare (nell’etimologia del tirar fuori, stimolare)
ed esperire siano una modalità consolidata che, in prospettiva, possa
fungere da prevenzione alle difficoltà senza tradurle in “disturbi
comportamentali”.
Il dialogo è l’ennesima menzogna se
manca la capacità di ascolto e di attenzione ai bisogni. Codificare i
conflitti attraverso le categorie cliniche del patologico è il
fallimento della relazione: relazione significa fenomenologia, la
scommessa meno scontata, quella che parla il linguaggio delle esperienze
e del relativismo per antonomasia, l’unica a restituire partecipazione
attiva.
Nella scuola pubblica la carenza di
spazi di riflessione procura disorientamento: carichi di lavoro
elevati, burocrazia, difficoltà a cogliere le priorità nel sovrapporsi
di impegni che tolgono energie da dedicare all’insegnamento e alla
relazione. Il CESP (Centro studi per la scuola pubblica), cogliendo
questa esigenza, organizza corsi di aggiornamento per offrire
riflessioni culturali, parallelamente all’attività sindacale COBAS. Fra
gli argomenti quello della medicalizzazione degli studenti: in attivo
una quindicina di seminari/laboratori molto partecipati, occasioni di
interscambio per approfondimenti importanti anche per chi interviene
nelle relazioni introduttive.
La difesa dell’autodeterminazione
nella relazione educativa e la responsabilità nei confronti delle nuove
generazioni ci spinge a svelare le gabbie di menzogna o i “regimi di
verità” per dirlo con M. Foucault; rincorrere stereotipi è una deriva
disumanizzante. La memoria ci ha tradito a tal punto da voler, a nostra
volta, tradire l’infanzia?
Chiara Gazzola
Nella consapevolezza di aver
sintetizzato alcuni passaggi, rimando a: C. Gazzola, S. Ortu, Divieto
d’infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, BFS, Pisa 2018, pp. 94, €
10,00, seconda edizione aggiornata; note e bibliografia in: http://www.bfs.it/edizioni/files/prefazioni/233.pdf