A Pisa è nato il collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud contro gli usi ed abusi della psichiatria.
Nessuno di noi è psichiatra, psicologo o uno "specialista " della mente ma siamo tutte persone
interessate a contrastare gli effetti nefasti che questa scienza del controllo produce sull'intero corpo sociale.
Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e segregazione indirizzate
a tutti quelli che non accettano il sistema di valori imposto dalla società.
E' arrivato il momento di rompere il silenzio che permette il brutale perpetuarsi di tutte le
pratiche psichiatriche e di smascherare l'interesse economico che si cela dietro
l'invenzione di nuove malattie per promuovere la vendita di nuovi farmaci.
Ci proponiamo di fornire:
- un aiuto legale
- informazione sui farmaci e sui loro effetti
collaterali
- denunciare le violenze e gli abusi della psichiatria

Chiunque è interessato può intervenire alle nostre assemblee che si svolgano
tutti i martedì alle 21:30 c/o lo Spazio Antagonista Newroz in via Garibaldi 72 a PISA
per info : antipsichiatriapisa@inventati.org
3357002669

attivo il nuovo sito del collettivo
www.artaudpisa.noblogs.org

mercoledì 28 aprile 2010

CAMICI E DIVISE: STORIE DI VIOLENZE E CONNIVENZE

In questi anni la psichiatria ha enormemente e capillarmente incrementato il suo
potere: non solo oggi assistiamo ad una sempre crescente medicalizzazione di
massa e patologizzazione dei comportamenti umani, che accompagnano tutte le
fasi della nostra vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche ad un incremento del
suo ruolo d’azione e di repressione a fianco delle forze dell’ordine e all’interno delle altre istituzioni totali. Troppo spesso infatti la psichiatria, e la medicina in genere, diviene complice ed alleata partecipe - o comunque omertosa - delle violenze e dei pestaggi operati dalle forze dell’ordine: vi è una connivenza ed una corresponsabilità
dei camici bianchi non solo nel momento in cui scrivono perizie omettendo la vera
causa della morte (come la presenza di evidenti segni di percosse), ma soprattutto
nel lavorare fianco a fianco con chi queste violenze le perpetra quotidianamente
all’interno dei CIE (Centri di Identificazione ed espulsione) e delle carceri. Il medico,
nelle case circondariali, lavora a stretto contatto con gli agenti, e ha primariamente
un ruolo da “manutentore”, dovendo garantire il benessere psico-fisico del
detenuto, perché l’istituzione per cui lavora esige ordine e non esiste ordine
se non attraverso “la salute” del detenuto. Automaticamente il medico assume
quindi anche poteri custodiali, e quasi sempre è consapevole dei pestaggi poiché
è piuttosto frequente che il detenuto picchiato venga poi portato in infermeria per
“un controllo” con addosso i segni che rendono evidente la violenza subita, ma
mai li denuncia. La direzione delle carceri favoreggia inoltre l’uso diffuso, abituale
(tre volte al giorno) ed indiscriminato di sedativi, soprattutto benzodiazepine, per
tenere a bada attraverso le cure psichiatriche i detenuti, che, pur non facendo uso
di stupefacenti, vengono così indirizzati verso la psicofamacologia. Invece di avere
come fine primario la salute dei detenuti, i medici diffondono l’uso di psicofarmaci,
che permette di controllare chimicamente l’umore dei detenuti , di lenire l’ansia
della carcerazione, e per questo motivo vengono appoggiati dalla direzione.
L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e
garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di
degrado e sovraffollamento che sono costretti
a subire.
Gocce di EN, TRANQUIRIT, TAVOR, LEXOTAN,
LIBRIUM, MINIAS e tutta una miriade di “sostanze
psicotrope legali” sono dunque a disposizione
dei detenuti . Lo psichiatra non può non essere
a conoscenza del fatto che le benzodiazepine
debbano essere usate per brevi periodi (per tre
o al massimo quattro settimane), poiché il loro
uso prolungato - così come dentro un carcere - è
devastante, e può arrivare persino a provocare
cambiamenti della personalità, e nel peggiore
dei casi a tramutare la carcerazione in una pena di morte. La benzodiazepina
più gettonata è il Minias, che è anche la più dannosa e quella che crea maggiore
dipendenza. Basta un anno di carcere a base di benzodiazepine per assicurarsi i
seguenti effetti indesiderati: riduzione dell’attenzione (tale da rendere pericolosa
la guida), confusione ed affaticamento, cefalea, vertigini e debolezza muscolare,
visione doppia, disturbi gastrointestinali ed epatici, cambiamenti nella libido fino
all’ impotenza sessuale, amnesia, irrequietezza, ottundimento delle emozioni,
allucinazioni e addirittura tendenze suicide. Inoltre questi farmaci sviluppano
una dipendenza fisica, e la sospensione della terapia può provocare fenomeni di
rimbalzo e di astinenza. La stessa massiccia somministrazione di benzodiazepine,
sedativi ed ipnotici avviene all’interno dei CIE, anche mescolati nel cibo all’insaputa
dei reclusi, e ad opera non di servizi specializzati, ma del personale sanitario che ha
in gestione la struttura (Croce Rossa, Misericordia, etc.): l’abuso della chimica e degli
psicofarmaci all’interno dell’istituzione totale è la sola risposta data a chi arriva nel
nostro paese e, senza aver commesso alcun reato, si trova rinchiuso in strutture
all’interno delle quali è impossibile vivere.
Anche all’interno dell’istituzione psichiatrica le pratiche sono costellate di abusi
alla persona, che vanno dalla contenzione fisica all’uso dell’elettroshock, tuttora
presentato come soluzione utile in casi che sembrano sfuggire al controllo degli
psichiatri e quando la terapia non dà i risultati sperati. I TSO (Trattamento Sanitario
Obbligatorio), eseguiti spesso con violenza dalle forze dell’ordine e dagli infermieri,
così come il legare al letto di contenzione un paziente, sono infatti prassi abituali,
abusi che i pazienti degli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) subiscono
regolarmente, e che a volte possono portare anche alla morte.
Come per Giuseppe Casu, venditore ambulante sessantenne di Cagliari, reo di aver
commercializzato la propria verdura senza licenza presso il mercato del suo paese -
come faceva da anni - e per questo ricoverato il 14 giugno 2006 in TSO nell’SPDC
dell’ospedale SS. Trinità di Cagliari. Qui è rimasto legato mani e piedi al letto per sette
giorni e sedato farmacologicamente, finché non è deceduto per tromboembolia
dell’arteria polmonare il 21 giugno. I medici del reparto sono accusati di omicidio
colposo, ed sono inoltre in corso delle indagini sulla scomparsa della cartella clinica e sulla sostituzione dei reperti anatomici, esaminati in sede di autopsia, con reperti animali.
Francesco Mastrogiovanni era invece un maestro elementare anarchico di 58 anni di
Castelnuovo Cilento, ucciso il 4 agosto 2009 in regime di TSO nel reparto psichiatrico
dell’ospedale S. Luca di Vallo della Lucania. Il 31 luglio infatti, mentre si trovava in villeggiatura a Pollica, l’uomo subì un ricovero coatto, pur senza una motivazione comprovata né commisurata al cospicuo dispiegamento di forze dell’ordine. Non è
ancora chiaro il motivo per cui sia stato disposto il ricovero coatto, dato che testimoni
presenti sul luogo raccontano di un uomo tranquillo e persino collaborativo al
momento del ricovero (si fa sedare e gli consentono di farsi una doccia e bere un
caffè!). Risultano inoltre violate le procedure previste dalla legge 180 in caso di TSO,
poiché il procedimento è stato attivato da un solo medico, anziché dai due previsti,
e fatto convalidare da un sindaco diverso da quello del paese in cui si sono svolti
i fatti. Perché inoltre Francesco viene portato a Vallo nonostante il suo profondo
timore di essere condotto in quel reparto e di morirci? Per tutto il tempo del suo
ricovero all’interno del reparto, l’uomo è stato sottoposto a contenzione fisica, è
stato duramente sedato con farmaci antipsicotici, idratato e alimentato solo con
soluzioni fisiologiche, il tutto senza essere monitorato né controllato dal personale.
La conferma dell’atroce trattamento subito da Francesco arriva dalla telecamera
posizionata nella sua stanza: il video, sottoposto a sequestro, lo riprende legato
al letto nudo per 80 ore, in una posizione in cui la normale funzione respiratoria
è compromessa. Nel legittimo, prolungato ed estenuante tentativo di liberarsi,
l’uomo si procura escoriazioni larghe fino a 4 centimetri ai polsi e alle caviglie. La contenzione fisica chiaramente non è stata annotata nella cartella clinica ma ha
evidentemente provocato l’edema polmonare acuto che ha condotto alla morte
il maestro. Allo stato attuale ci sono 19 indagati: oltre ai 7 medici, anche i 12
infermieri che hanno prestato servizio nel reparto durante il suo ricovero.
Nella prassi della vita psichiatrica, non solo quindi i TSO vengono attuati con estrema
frequenza e leggerezza - e non in via del tutto eccezionale come vorrebbe la legge
180 -, ma spesso capita che anche quelli che si recano in reparto volontariamente,
nel momento in cui chiedono di poter tornare a casa, siano trattenuti tramite
pressioni e la minaccia di un provvedimento di TSO. A volte l’opera di persuasione
viene supportata dalla violenza fisica, come nel caso di Edmond Idehen, nigeriano di
38 anni morto in reparto a Bologna il 26 maggio 2007 per una crisi cardiaca mentre
infermieri e poliziotti tentavano di legarlo al letto, in seguito alla sue insistenti e
giuste richieste di uscire dal reparto, visto che vi era entrato volontariamente.
Altra pratica di cui abusa la psichiatria è l’obbligo delle cure, che tra l’altro si riduce
ad un bombardamento farmacologico, di durata indeterminata ed imposto senza
le dovute informazioni ed i dovuti controlli medici. Di tali psiocofarmaci vengono
come al solito taciuti i gravi effetti collaterali che possono causare anche la morte, come nel caso di una donna palermitana, A. S., di 63 anni morta il 28 agosto 2006 in reparto psichiatrico a Palermo, dove era entrata il 17 agosto e trattenuta per accertamenti; dopo alcuni giorni di stato comatoso provocato dai farmaci (dal 25 al 27), la donna si sarebbe risvegliata per morire la notte tra il 28 e il 29.
Anche Roberto Melino, di 24 anni, è morto per arresto cardiocircolatorio il 12
giugno 2007 nel reparto psichiatrico di Empoli, dove era entrato volontariamente,
e, manifestata la sua legittima volontà di uscire, è stato aggredito chimicamente
con neurolettici. La sera prima i familiari avevano sollecitato una visita dei medici
poiché il ragazzo ansimava e accusava problemi respiratori. Ancora resta da chiarire
se la morte sia avvenuta per cause naturali o in seguito alla somministrazione
dei farmaci; il medico di parte non ha potuto assistere all’autopsia a causa di un
fraintendimento circa l’orario della stessa (!).
Un caso emblematico di somministrazione del tutto arbitraria di psicofarmaci è
quello di Sorin Calin, ragazzo rumeno di 24 anni, morto il 20 ottobre 2009 nel
tragitto dalla caserma dei carabinieri di Montecatini Terme al reparto dell’ospedale
di Pistoia a causa della somministrazione di un ansiolitico, il Midazolam,
controindicato in caso di contemporanea assunzione di alcool, motivo per cui era
stato fermato ed accompagnato in caserma. Secondo l’unica versione, ovvero quella
dei carabinieri che chiamano il 118, il giovane “dà in escandescenza”, sbattendo
contro il muro e contro il pavimento (così i carabinieri motivano i lividi trovati
sul corpo!). I sanitari intervengono somministrandogli il potente sedativo, e più
tardi i carabinieri effettuano una nuova chiamata al 118 perché non riescono più
a svegliare il giovane, che arriva all’ospedale già cadavere. Il medico, l’infermiere
e tre volontari del Soccorso Pubblico sono stati sentiti dai carabinieri del reparto
operativo di Pistoia, ma per ora nessuno è iscritto nel registro degli indagati! Il
medico, che ha effettuato la somministrazione nonostante fosse consapevole
dell’alcol assunto da Sorin, dichiara di aver agito in piena coscienza , supportato
dall’ASL, che, interrogata in merito, ha descritto la procedura come “regolare”. Ciò
ci lascia molto perplessi, in quanto il foglietto illustrativo del Midazolam cita tra le controindicazioni la somministrazione del farmaco in caso di intossicazione acuta da alcol. Tra l’altro si afferma anche che l’iniezione di tale sedativo “deve avvenire solo nelle strutture in cui sono disponibili apparecchiature per
la rianimazione”, mentre in questo caso è avvenuta nella
caserma dei carabinieri.
Analogo è il caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008
nel reparto psichiatrico di Varese. Nonostante i carabinieri, che avevano richiesto il provvedimento di TSO, parlassero di evidente stato di ubriachezza, i medici gli somministrarono tre ansiolitici (Tavor, En e Solfaren) ed un anestetico,
causandone il decesso. Uva era giunto in ospedale con ematomi, escoriazioni, e perdita di sangue dall’ano, evidenti
conseguenze del pestaggio che aveva subito in caserma
per mano di carabinieri e polizia nelle 4 ore precedenti al TSO. L’intero caso è emblematico: perché quando un
amico di Giuseppe, testimone del pestaggio chiama il 118, i carabinieri ne bloccano l’intervento? Perché ben 4 ore dopo il fermo saranno i carabinieri stessi a richiedere un intervento di TSO?
Perché i medici del reparto psichiatrico non hanno prestato ad Uva le cure necessarie (il pestaggio subìto era evidente), anziché procedere alla somministrazione arbitraria
di psicofarmaci? Perché somministrare ansiolitici incompatibili con alcol? Perché
finora non sono stati eseguiti gli esami radiologici, per evidenziare eventuali fratture
sul corpo del giovane, visto che presentava evidenti segni di percosse? Dove sono
finiti - e chi ha fatto sparire - referti importanti come lo slip sporco di sangue? Gli
unici indagati sono per ora i due medici, per omicidio colposo dovuto ad errata
somministrazione di farmaci, ma i familiari chiedono la riapertura delle indagini,
e hanno recentemente presentato un esposto alla Procura di Varese, chiedendo
di effettuare un’autopsia più accurata sul corpo del giovane e di interrogare l’unico
testimone del fermo e del pestaggio, l’amico Alberto, ancora mai sentito.
Non può che rimanere il dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato
sulle quali è necessario fare chiarezza! Come non si mette in discussione l’operato
delle forze dell’ordine, ancor meno si mette in discussione quello della psichiatria, il cui giudizio e metodo sono insindacabili grazie all’autorevolezza datagli dall’essere
considerata una scienza medica, nonostante sia priva di comprovate basi scientifiche.
In realtà questa falsa scienza, come le altre istituzioni totali, abusa del suo potere sulle persone ed è anch’essa una zona di silenzio, una zona d’ombra impenetrabile e lontana dagli sguardi della collettività, in cui è possibile commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità.

MORIRE IN REPARTO: storie di ordinaria psichiatria

L’attuale modello societario per un’efficiente governance ha sempre più la
necessità di ridurre le complessità espresse da ciascun individuo, di codificare
e stigmatizzare i comportamenti umani, dividendoli in buoni/cattivi e giusti/
sbagliati. La paura, ottimo collante sociale, è coltivata e diretta nei confronti di
chi è diverso, di ogni pensiero critico e di ogni comportamento non conforme/
deviante, che viene considerato elemento di disturbo e di pericolo, trasformato
in mostro immaginario: terrorista, drogato, violento, matto.
Il potere psichiatrico, come le altre istituzioni securitarie (forze dell’ordine, carceri, CIE, OPG), non è che un ulteriore potente strumento repressivo e di controllo per isolare, emarginare, contenere e normalizzare le persone che non si adeguano all’ordine sociale dominante.
Come non si mette in discussione l’operato delle
forze dell’ordine, ancor meno si mette in discussione quello della psichiatria,
il cui giudizio e metodo sono insindacabili grazie all’autorevolezza datagli
dall’essere considerata una scienza medica, nonostante sia priva di comprovate
basi scientifiche. In realtà questa falsa scienza, come le altre istituzioni totali,
abusa del suo potere sulle persone ed è anch’essa una zona di silenzio, una zona
d’ombra impenetrabile e lontana dagli sguardi della collettività, in cui è possibile
commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità.
La psichiatria serve ad arginare qualsiasi critica sociale e a normalizzare quei
comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento
dello status quo, al fine di estendere il controllo sociale e la possibilità di
intervento normalizzante da parte delle istituzioni. In questi anni la falsa scienza
psichiatrica ha notevolmente ampliato il proprio campo d’intervento. Invadendo
le nostre esistenze, sminuisce le sofferenze umane riducendole a disturbi biochimici della mente, sempre più interpretati come patologie genetiche
del soggetto. Se è vero che assistiamo ad una sistematica
diffusione del disagio, è vero anche che le cause vanno
ricercate nella società in cui viviamo e nello stile di vita che ci
viene imposto, che esige sempre più efficienza e concorrenzialità.
In cambio ci viene offerta una precarietà sempre più diffusa che genera senso di inadeguatezza e ostacola prospettive di emancipazione. Come risposta a ciò abbiamo la medicalizzazione di quelli che sono gli eventi naturali della vita e di quei comportamenti non conformi agli standard sociali.
Le reazioni dell’individuo al carico di stress
cui si trova sottoposto vengono interpretate quali sintomi di malattia e le
risposte che riceviamo sono sempre dello stesso tipo: diagnosi-etichetta e cura
farmacologica.
Le pratiche e i dispositivi psichiatrici, che hanno portato alla morte di molte
persone in questi anni sono una diretta eredità dei manicomi, in quanto la legge
180, nonostante li abbia chiusi, ha però mantenuto inalterato il principio in base
al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale”
e rinchiuso, anche solo perchè rifiuta di curarsi - o rifiuta la tipologia di cura
impostagli - attraverso il ricovero coatto (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in
reparti specializzati e chiusi.
Con la chiusura dei manicomi, la psichiatria ha raggiunto più potere ed una
migliore accettazione sociale come scienza medica: essa è riuscita a sbarazzarsi
di camicie di forza, sbarre, e degli strumenti più violenti - nonostante continui
ad usare letti di contenzione ed elettroshock -, sostituendoli con cure massicce
ed obbligatorie di psicofarmaci, ma ha mantenuto le sue pratiche lesive della
libertà individuale.
Dal momento in cui viene presa in cura dal Servizio di Salute Mentale, il più delle
volte la persona finisce per perdere la propria autonomia, il proprio lavoro, la
gestione della propria vita, del proprio tempo, dei propri affetti, del proprio
corpo e la sua parola comincia ad avere sempre meno peso di fronte a quella di
medici e familiari. Se pensiamo che a questo si aggiungono i gravi problemi fisici
dovuti agli psicofarmaci - che tra l’altro provocano spesso ansia e depressione! -
o il trauma provocato da esperienze dolorose come un’interdizione, un TSO, la
reclusione immotivata, l’aggressività e le minacce subite in reparto, possiamo
capire il motivo dei tanti suicidi all’interno dei reparti o fuori.
Le grandi strutture manicomiali sono state dunque sostituite da più piccole
strutture capillarmente diffuse sul territorio, all’interno delle quali continuano
a perpetuarsi sia l’etichetta di “malato mentale” sia i metodi coercitivi e violenti
della psichiatria: come si moriva nei manicomi, si muore oggi nei reparti
psichiatrici e negli OPG, in circostanze sospette, oscure, che però non suscitano
alcun interesse nell’opinione pubblica e nei mass-media.
È però importante sottolineare come le morti in psichiatria non siano riconducibili
ad episodi di malasanità, termine che indica un dis-servizio, la mancanza di cure
da parte del sistema sanitario, ma al contrario sono tragiche conseguenze di
pratiche quotidianamente perpetrate all’interno dei reparti psichiatrici.
I TSO eseguiti spesso con violenza da forze dell’ordine e infermieri, così come il
legare al letto di contenzione un paziente sono prassi abituali, abusi che i pazienti
degli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) subiscono regolarmente e che
a volte portano anche alla morte. Come nel caso di Francesco Mastrogiovanni
(morto il 4 agosto del 2009 a Vallo della Lucania) e Giuseppe Casu (morto il 21
giugno 2006 a Cagliari) deceduti entrambi all’interno di reparti psichiatrici, in
regime di TSO, dopo essere stati sedati farmacologicamente e legati al letto per
giorni senza essere monitorati dal personale. Oppure può accadere che persone
recatesi in reparto volontariamente siano poi trattenute tramite pressioni
psicologiche e la minaccia di un provvedimento di TSO. A volte l’opera di
persuasione è supportata dalla violenza fisica, come nel caso di Edmond Idehen,
morto in reparto a Bologna il 26/05/07 mentre infermieri e poliziotti tentavano
di legarlo al letto, in seguito alla sue insistenti e legittime richieste di lasciare
l’ospedale, visto anche che vi era entrato volontariamente.
Altra pratica di cui abusa la psichiatria è l’obbligo delle cure, che tra l’altro si
riduce ad un bombardamento farmacologico, di durata indeterminata e imposto
senza le dovute informazioni e i dovuti controlli medici. Di tali psicofarmaci
vengono quasi sempre taciuti i gravi effetti collaterali che possono causare
anche la morte, come nel caso di una donna palermitana, (A.S. morta il 28 agosto
2006 a Palermo) precedentemente entrata in coma a causa dei farmaci; come il
giovanissimo Roberto Melino (morto il 12 giugno 2007 a Empoli) che era entrato
volontariamente in reparto ad Empoli ed è stato “aggredito” chimicamente dopo
aver espresso la volontà di uscire; ed infine come Sorin Calin, morto a Montecatini
Terme il 20 ottobre 2009 durante il tragitto dalla caserma dei carabinieri al reparto
a causa della somministrazione di un ansiolitico, il Midazolam, controindicato in
caso di contemporanea assunzione di alcool, motivo per cui era stato fermato.
Sono tutti decessi attribuiti dalla psichiatria e dalla giustizia a cause naturali
(arresto cardiocircolatorio e/o respiratorio), nonostante la giovane età e il buono
stato di salute delle vittime prima del ricovero, ma non può che rimanere il
dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato sulle quali è necessario
fare chiarezza!
L’invito è a rompere il silenzio, a denunciare gli abusi psichiatrici perpetrati ai
danni di individui troppo spesso impotenti perché intrappolati nella solitudine
psichiatrica, a distruggere quei miti di cui la psichiatria si è circondata e a spezzare il muro di silenzio che da sempre la circonda e la difende da attacchi esterni.

giovedì 15 aprile 2010

VERITA' UNA GIUSTIZIA NESSUNA!

Niki Aprile Gatti, Manuel Eliantonio, Marcello Lonzi, Francesco Mastrogiovanni, Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Stefano Frapporti, Aldo Bianzino, Simone La Penna, Bledar Vukaj.

Morti per mano di uomini in divisa al servizio dello Stato
.
come Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi

ci sembra importante fare una corretta informazione su cosa veramente è
successo per far si che queste violenze non possano più accadere.
l'obbiettivo dell'iniziativa è di far raccontare a tutti i familiari la
loro storia, allargando allo stesso tempo il discorso ai vari contesti
( repressione, carcere, immigrazione, manicomi)
che emergono dalle diverse vicende.

I FAMILIARI INCONTRANO LA CITTA' di Pisa
diamo voce ai familiari delle vittime delle forze dell'ordine e delle istituzioni.

SABATO 24 APRILE 2010 a Pisa
c/o Terrazza Leo Caffè alla stazione Leopolda in p.zza Guerrazzi.
a partire dalle 16.00 incontro dibattito
a seguire dalle 19.00 aperitivo e buffet


ZONE DEL SILENZIO:
Associazione Aut Aut
Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud
Collettivo Aula R
Coordinamento antifascista antirazzista pisano
Guppo discussione carcere
Osservatorio antiproibizionista-Canapisa Crew

Collettivo Antipsichiatrico "Antonin Artaud" Pisa - 2007 antipsichiatriapisa@inventati.org