OPPORSI AL TSO SI PUO' E SI DEVE!
riceviamo e volentieri pubblichiamo, su richiesta dell'autore,
il suo racconto dell'esperienza vissuta in un reparto di psichiatria.
OPPORSI
AL TRATTATAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO SI PUO' E SI DEVE
di Valerio
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La
mia disavventura con la psichiatria comincia un maledetto giorno di
dicembre del 2013 quando, su forte insistenza di un parente che
lavora presso la struttura ospedaliera della mia città e ha molta
confidenza con i medici psichiatri di reparto, mi viene praticato un
Tso del tutto ingiustificato, basato solo sul mio stato di evidente
ebrezza e nulla di più. Io commetto un enorme errore che mi rovinerà
l'esistenza: accettare con remissione senza oppormi. Il Tso mi viene
addirittura ridotto da 7 giorni, come prevede la normativa, a soli 4,
perché anche gli psichiatri sanno che dopo averci dormito su una
sbronza passa e quindi era del tutto assurdo continuare a tenermi con
la coercizione nel reparto. Questo però crea un annoso precedente
che nei mesi successivi mi costerà molto caro.
Nella
vita ho avuto due grandi disgrazie: avere entrambi i genitori malati
di mente (secondo chi decide i criteri di tale patologia) e di aver
cercato rifugio, per le loro continue assenze per ricoveri lunghi
anche anni, nell'alcool. I miei ricordi d'infanzia sono per lo più
legati all'odore di "piscio e segatura" che sentivo
quando mi portavano a trovarli, perché "stavano male", in
non – luoghi che a me incutevano una gran paura.
Dopo
quel maledetto giorno di dicembre anche io sono finito in quei luoghi
che per tanto tempo avevo cercato di dimenticare.
Sono
seguiti alcuni Tsv, sempre su spinta di alcuni familiari, e quando mi
sono accorto che su di me era calata una gabbia era troppo tardi.
Oltre alla sindrome da dipendenza da alcol, durante l'ennesimo
ricovero, mi è stata affibbiata la stessa identica diagnosi che
avevano i miei genitori: "disturbo bipolare". Nessun
criterio scientifico, nessuna analisi approfondita del paziente, solo
che ingenuamente quando mi veniva chiesta l'anamnesi familiare io
rispondevo con sincerità. E dunque mi è stato fatto un "copia
– incolla" dei miei incubi peggiori, stavo varcando quella
soglia verso il buio, dalla quale nè mia madre nè mio padre sono
mai tornati indietro.
La
malattia mentale secondo questi medici si trasmette da genitore a
figlio come le patologie genetiche, niente importa più.
Durante
i miei ricoveri ho subito ed ho assistito a soprusi, umiliazioni,
ricatti. Se fossi credente definirei i reparti di psichiatria
qualcosa di molto simile all'inferno sulla terra.
Data
la mia diagnosi sono stato trattato farmacologicamente di
conseguenza: timo – regolatori (volgarmente detti "stabilizzatori
dell'umore", come se l'umore di una persona dovesse essere
regolato chimicamente e non dal naturale evolversi della vita e delle
esperienze personali) e ansiolitici da cui adesso sono dipendente.
Alla mia ferma opposizione ad assumere Depakin (acido valproico) per
i suoi devastanti effetti collaterali, che avevo già constato coi
miei occhi sui miei genitori, ho subito dei ricatti psicologici e
delle vassazioni che faccio fatica anche solo a raccontare.
Ho
avuto la fortuna però di incontrare anche delle persone giuste, a
fatica ero riuscito ad uscire da questa gabbia, riuscendo persino a
farmi chiudere la cartella clinica presso i Centri di Salute Mentale
sul territorio presso i quali, quando non sei recluso in reparto, ti
devi presentare giornalmente come se fossi in libertà vigilita.
Mi
è stato proposto il metodo Hudolin (dallo psichiatra croato Vladimir
Hudolin che tanto lavorò a fianco di Basaglia e riuscì, almeno in
parte, a scardinare i pregiudizi della psichiatria classica), un
approccio ai problemi alcol – correlati che vede il paziente non
come un malato da trattare farmacologicamente, ma come un individuo
facente parte di una comunità familiare e multi – familiare, che
deve solo cambiare il suo stile di vita nei confronti dell'alcool per
potersi godere la vita come meglio crede.
Sono
stato in Veneto in una struttura hudoliniana con assoluta politica
delle "porte aperte" e ho ottenuto risultati sorprendenti.
La mia vita stava ricominciando lontano da alcool e psichiatria.
Ma
quel maledetto giorno di dicembre, ormai lontano nel tempo e nel
ricordo, mi presenta il conto: mentre ero seduto sul divano a
guardare la tv, l'amica che mi stava ospitando a casa mi porge
un'ordinanza di Tso firmata poche ore prima. La mia colpa? Aver avuto
una cosiddetta ricaduta (cioé aver assunto alcool dopo molti mesi
d'astinenza) e, sempre ingenuamente, averlo comunicato al mio medico
del Ser.T, di cui avevo profonda stima e affetto. Non ho mai compiuto
un singolo atto violento in vita mia, neanche sotto l'effetto
dell'alcool, la mia unica colpa come detto è stata quella di
accettare passivamente che la "gabbia psichiatrica" calasse
su di me, perché così pensavo di far stare sereni i miei familiari.
Ma
questa volta ho detto no, non potevano farmi questo proprio nel
momento in cui stavo riacquisendo serenità e la mia vita stava
ricominciando. Una settimana recluso in reparto, per un dispetto di
una psichiatra, mi avrebbe lasciato una ferita troppo grande da
rimarginare.
Non
ho aperto alle forze dell'ordine, ho cercato di contattare un legale,
ma invano. Dopo tre ore di vero e proprio assedio, la polizia in
tenuta anti – sommossa è riuscita a entrare nel privato della mia
casa, devastando tutto il mio piccolo mondo. Sono stato portato via
ammanettato dietro la schiena da una decina di energumeni, come il
peggiore degli assassini. Tutto il quartiere e numerosi giornalisti
lì fermi ad assistere a questa scena surreale.
La
vicenda per sommi capi la trovate qui:
Una
volta rinchiuso in reparto, come da prassi, sono stato pesantemente
sedato per via endovenosa e messo a tacere. Ma la mattina dopo ho
avuto uno dei pochi colpi di fortuna che mi sono capitati nella vita:
l'ago della flebo con cui mi stavano sedando era fuoriscito durante
la notte e potevo così riacquisire lucidità e forza per camminare.
All'ora del vitto mi sono diretto verso la porta che dà sul retro
dove ci sono gli uffici medici e quindi a una porta antipanico che
significa libertà. Come ribadito non sono mai stato un violento ma
nei calci a piedi scalzi che ho dato a quella porta c'era la forza di
tutte le persone che hanno subito un abuso simile e non lo hanno mai
potuto denunciare. Al terzo calcio, con un frastuono che ha fatto
tremare tutto il reparto, e la coscienza di chi aveva potuto
permettere un tale abuso, la porta si è spalancata. Ho avuto
l'istinto di scappare di corsa, ma me ne sono andato camminando, a
testa alta, perché io non mi sentivo colpevole di niente.
Ho
passato dei giorni tremendi, nascondendomi di giorno e andando in
cerca di acqua e cibo la notte, i quotidiani locali dicevano che "era
ricercato da tutte le forze dell'ordine il ragazzo in fuga che si era
barricato in casa". Ma presto gli amici e i parenti che mi
conoscono per quello che sono, un ragazzo buono che ha avuto un sacco
di avversità nella vita ma senza mai cagionare danno a nessuno, mi
hanno contattato, il mio nome è comparso sul giornale. Non mi
sentivo più solo. Mi ha chiamato il Collettivo Antipschiatrico
Artaud. No, non ero affatto solo. Mi è stata espressa una
solidarietà che mi ha commosso e mi ha dato la forza di portare
avanti una battaglia. Non una semplice rivalsa personale ma una lotta
per i diritti di tutti, costituzionalmente sanciti.
E'
stata messa su una raccolta fondi che mi ha permesso di rivolgermi a
dei legali a cui la mia vicenda ha creato "una notevole crescita
sia sul piano professionale che su quello umano". L'opposizione,
come prevede la normativa, all'ordinanza di Tso è stata depositata,
ed ora ho piena fiducia nella giustizia. E questo è solo l'inizio.
Il
sistema psichiatrico è una cosa talmente più grande di me che se ci
rifletto su mi sembra una lotta contro i mulini a vento. Ma adesso
sento il dovere di andare fino in fondo, fosse l'ultima cosa che
faccio, perché opporsi al trattamento sanitario obbligatorio si
può e si deve.