LA VILLA DEI SORRISI
riceviamo e, su richiesta dell'autore, volentieri pubblichiamo il suo racconto autobiografico sulla sua esperienza con l'elettroshock
La villa dei sorrisi
Via
delle Immacolatine 28, questo indirizzo non l'ho più dimenticato. Nel 1983
conseguii la maturità classica. Quasi tutti i compagni di classe ottennero il
massimo, i più avevano il merito di essere figli di professionisti molto influenti
e di essere bene raccomandati. I miei mi vollero raccomandare con l'insegnante
di matematica e io accettai anche se ero poco convinto del suo intervento a mio
favore. Era molto brutta e un po' nevrotica, la imitavo per fare ridere i
compagni e per sfogare la mia insofferenza per la scuola. Da come mi guardava
ero sicuro che lei sapeva della presa in giro. Accettai la spintarella malgrado
lo scetticismo e nonostante fossi molto
idealista. Avevo fatto un mare di assenze e a casa avevo studiato poco, anzi
per niente, temevo di non superare l'esame. Leggevo di tutto tranne i libri di
scuola. Conoscevo Claude Levi Strauss, Freud, Lacan, De Saussure, Roman
Jakobson e tanti altri studiosi. Mi piaceva molto lo strutturalismo anche se mi fu a lungo d'ostacolo sul piano dell'azione
in quanto nega la libertà dell'individuo. All'università diedi per prima una
materia complementare, sociologia delle comunicazioni. Quando sostenni l'esame
portai dei libri di etnologia che non erano richiesti, il professore mi chiese
perché lo avessi fatto e io mi trovai in difficoltà, una studentessa rise ma
presto mutò espressione. Fui congedato con il massimo e ricevetti i complimenti
dell'esaminatore. Il professore Carzo mi fece domande che non erano comprese
nel piano di studio e io risposi a tutte in maniera soddisfacente. La prova si
trasformò in una piacevole conversazione. Alla fine, considerato che avevo con
me “Il totemismo oggi”, mi chiese dove si collocano le strutture secondo Levi
Strauss e io indicai con il dito il cervello. Scrisse su un foglio che avevo
sostenuto l'esame con 30 e lo firmò, mi spiegò che non poteva scriverlo sul
libretto se prima non avessi superato la materia fondamentale che era
sociologia generale. Superai anche quest'ultima con un ottimo voto ma non andai
a convalidare la precedente materia. Decisi di non proseguire dopo che fui
bocciato in filosofia della politica. Avrei dovuto parlare di un libro che non
mi piaceva e di un secondo che avevo solo sfogliato. Il primo trattava del
potere in una forma troppo astratta sulla falsariga della moda strutturalista.
Ad esempio: “il potere tende al suo mantenimento e alla sua riproduzione”.
Scrissi una critica ma non potei parlarne con l'autore del libro, titolare
della cattedra, che era una persona molto cordiale e comprensiva. Egli portò
con se in un'altra stanza i primi tre studenti per interrogarli e lasciò il
quarto che ero io nelle mani degli assistenti che mi respinsero. Fu la prima
bocciatura e mi pesò molto, a scuola non ero mai stato bocciato, né rimandato.
Un'altra ragione che mi fece rinunciare agli studi universitari fu l'incontro
con la madre di un mio ex compagno di scuola che non riusciva a dare nessuna
materia all'università. Seppe che io in poco tempo ne avevo date due e si
complimentò falsamente con me. Il marito era medico, aveva inculcato ai figli
fin da bambini quello che avrebbero dovuto fare da grandi. Il più grande
avrebbe dovuto proseguire la sua professione, l'altro, il mio compagno, sarebbe
dovuto diventare giudice come lo zio. Il pensiero dell'ambizione, il rigetto
dei valori borghesi, il rifiuto della burocrazia universitaria che si
sostanziava nella mia difficoltà di aggettivare il rettore come magnifico
quando dovevo compilare i moduli, mi indussero ad abbandonare la facoltà di
scienze politiche di Messina. Ero innamorato di una ragazza che abitava al
piano di sopra. Era molto bella e veniva spesso con la madre a casa mia.
Passavamo molto tempo insieme, parlavamo, guardavamo la televisione abbracciati
o giravamo in moto. Non le avevo mai confessato il mio amore perché ero
convinto di non piacerle. Ero molto geloso, ogni tanto aveva dei fidanzati e
questo mi indispettiva, al punto che una volta la trattai male e la offesi
senza che avesse alcuna colpa. Lei pianse a dirotto, mi porto ancora dentro il
rimorso. A distanza di molti anni ci rivedemmo e le confessai che ero stato
innamorato di lei, mi rivelò che anche lei mi aveva amato. Un altro episodio di
cui porto ancora il peso è quando mi vergognai per un istante di mio padre che
zoppicava a causa di un ictus. Mentre
camminavo con lui affrettai il passo, mio padre se ne accorse e sorrise
dolcemente. Essendo un po' robusto, decisi di dimagrire e lo feci di testa mia,
diminuii il cibo fino a eliminarlo del tutto, mi disgustava. Dormivo pochissimo
ed ero euforico. Trascorsi diversi giorni di insonnia, mi accorsi che stavo per
crollare e che quella notte avrei dovuto riposare. Rinunciai stupidamente per
aiutare un caro amico a incollare i manifesti elettorali del padre, una persona
molto mediocre come la quasi totalità dei politici italiani dal 1861 a oggi.
Persi la ragione e qualche giorno dopo mi ritrovarono sdraiato su una panchina
nei pressi della stazione, ero quasi uno scheletro, molto agitato e logorroico.
All'ospedale di Reggio Calabria mi dimisero senza curarmi. Mia madre, su
consiglio del medico di famiglia, mi fece ricoverare a Roma nella clinica Villa
dei sorrisi in via delle Immacolatine 28. Lì mi legarono al letto di
contenzione per due o tre giorni e mi fecero delle flebo mettendomi un po' in
sesto. Mi trovavo al piano basso della clinica dove erano i malati più gravi.
Insieme a me si ricoverò mio padre per curare l'ictus e dei disturbi di cui
aveva sempre sofferto senza rendersi conto. Non l'avevo mai visto così sereno,
la sua vicinanza mi confortò molto. Il giorno uscivamo insieme nel cortile
alberato e sedevamo su una panchina. C'erano pazienti che gridavano e si
lamentavano, altri erano silenziosi, avevano gli occhi persi nel vuoto e i
movimenti rallentati, ma io ero felice di essere accanto a mio padre e conservo
preziosamente il ricordo di quei momenti che precedettero di pochi mesi la sua
scomparsa. Il primario proprietario della clinica mi visitò e diagnosticò che
l'anoressia era stata causata da una depressione atipica. Dopo qualche giorno
fu ricoverata al mio posto una bella ragazza, gridava come un'ossessa, chiedeva
di essere liberata dalle cinghie, voleva andarsene. Chiesi a un infermiere cosa
avesse, mi rispose che era drogata. Restammo soli per qualche minuto prima di darci
il cambio e mi disse di baciarla. Le chiesi ingenuamente dove. “Dove vuoi”, mi
rispose. Mi chinai sul letto e la baciai sulle labbra. Mi trasferirono ai piani
superiori, intanto mio padre venne dimesso. Il pomeriggio, fino a sera, ci si
riuniva in un salone al piano terra dove c'era un juke box. La canzone che
preferivo era “Smoke gets in your eyes” di Celentano, esprimeva bene la
tristezza che mi pervadeva. Rividi la ragazza che avevo baciata, ma non
sembrava affatto interessata a me. La sera dopo si avvicinarono lei e una sua
amica che era più socievole. L'amica mi chiese se mi piaceva il caffè, e se,
considerato il buon trattamento che mi riservava il primario, avessi potuto
chiedere in direzione l'autorizzazione per fare portare dei caffè dal bar vicino.
Io intuì dal suo imbarazzo che più che al caffè era interessata alle bustine di
zucchero quindi rifiutai. Dopo qualche insistenza desistette e si rivolse a un
anziano parente di un ricoverato che la accontentò con gentilezza. Arrivò nel
salone il cameriere, le due presero i caffè con le bustine e corsero in bagno.
Rientrarono nel salone ridendo senza riuscire a smettere. L'anziano signore si
arrabbiò molto, gridò loro che lo avrebbe riferito al professore, che lo
avevano ingannato e messo a rischio, capì anche che si erano rivolte prima a me
e che non avevo dato loro retta. Assistetti in silenzio alla scena soddisfatto
per il mio intuito. Al mattino mi annunciarono che mi avrebbero sottoposto alla
“cura”. Sentii dal corridoio il rumore di un carrello. Poco dopo entrò
l'anestesista in compagnia di due infermieri. Mi legò al braccio il laccio
emostatico, riempì la siringa e mi iniettò l'anestetico. Mi svegliai un po'
confuso, mi accorsi che sulla fronte avevo una piccola ferita e alcuni capelli
bruciacchiati. Pensai subito all'elettroshock, quel trattamento che la mia
enciclopedia definiva crudele e inumano, ma per paura non chiesi di cosa si
trattava. Ebbi la conferma da un paziente, a mia volta rivelai ad altri
pazienti in che cosa consisteva la cura. Un giovane si agitò molto quando
apprese la notizia e protestò ad alta voce nel corridoio. Fui rimproverato e
invitato a non pronunciare la parola elettroshock. Malgrado odiassi sottopormi
a questa pratica, ogni quindici giorni prendevo il treno per Roma. Avevo paura
che se mi fossi rifiutato mia madre sarebbe ricorsa al ricovero coatto in
quanto nutriva molta fiducia in quella clinica. Viaggiavo di notte e al mattino
mi affrettavo a prendere il taxi alla stazione per arrivare puntuale. Una volta
un tassista, per speculare, finse di non trovare la strada, si lagnava per un
mutuo che doveva pagare. Arrivai tardissimo e mi dissero che non potevano
sottopormi al trattamento, poi riuscirono ad eseguirlo. Quando sentivo il
rumore del carrello che si avvicinava avevo paura, pensavo al mio corpo esanime
che sarebbe stato prelevato dal letto
come un sacco di patate e trasportato in una stanza che non conoscevo. Mi chiedevo se mi fossi svegliato
in quella stanza mentre avevo gli elettrodi sulle tempie o se non mi fossi più
svegliato come era successo un mattino molto concitato a un paziente. Un giorno
decisi di disobbedire e di interrompere la cura. Mia madre, con l'aiuto di mio
fratello, mi costrinse a partire. A Roma mi rifiutai di scendere dal treno e
mio fratello chiamò la polizia ferroviaria. Io lo seppi dopo, non ricordo quasi
nulla di quell'episodio. L'elettroshock ti fa scordare tutto, dimentichi le
cose brutte, ma anche quelle belle. Ho fatto fatica a riprendere i miei studi e
a lavorare. Il pensiero che ogni quindici giorni avrei dovuto affrontare quella
Via Crucis era molto deprimente. Dopo tre anni anni di calvario trovai il
coraggio di dire al primario che mi ero stancato e lui mi
rispose che sicuramente ero guarito, perché mi considerava molto intelligente e
capace di stabilire se avevo bisogno o meno del trattamento, supponeva che
non mi
ero lamentato prima perché mi rendevo conto di averne necessità. Avevo
voglia di dirgli che era un idiota. Quando seppe che ero stato assunto in
ferrovia, durante le visite mattutine, entrava in stanza e mi chiedeva: “Come
sta il nostro ferroviere?” e imitava il
fischio del treno. Quella scena mi dava molto fastidio, la sentivo poco
rispettosa. Ho capito così che bisogna entrare in punta di piedi nella stanza
di una persona che soffre. Le ultime volte che mi trovai in clinica, accanto al
primario c'era il figlio, che era circa della mia stessa età, e una dottoressa.
Diedi al giovane luminare del tu, un po' per il gusto della provocazione, un
po' per saggiare come erano fatti, anche se non mi facevo illusioni. Si
guardarono imbarazzati e scandalizzati, borbottarono qualcosa. La volta
successiva lo chiamai professore e lui disse: “Così va meglio”.
Giuseppe
Gangemi