MORIRE IN REPARTO: storie di ordinaria psichiatria
L’attuale modello societario per un’efficiente governance ha sempre più la
necessità di ridurre le complessità espresse da ciascun individuo, di codificare
e stigmatizzare i comportamenti umani, dividendoli in buoni/cattivi e giusti/
sbagliati. La paura, ottimo collante sociale, è coltivata e diretta nei confronti di
chi è diverso, di ogni pensiero critico e di ogni comportamento non conforme/
deviante, che viene considerato elemento di disturbo e di pericolo, trasformato
in mostro immaginario: terrorista, drogato, violento, matto.
Il potere psichiatrico, come le altre istituzioni securitarie (forze dell’ordine, carceri, CIE, OPG), non è che un ulteriore potente strumento repressivo e di controllo per isolare, emarginare, contenere e normalizzare le persone che non si adeguano all’ordine sociale dominante.
Come non si mette in discussione l’operato delle
forze dell’ordine, ancor meno si mette in discussione quello della psichiatria,
il cui giudizio e metodo sono insindacabili grazie all’autorevolezza datagli
dall’essere considerata una scienza medica, nonostante sia priva di comprovate
basi scientifiche. In realtà questa falsa scienza, come le altre istituzioni totali,
abusa del suo potere sulle persone ed è anch’essa una zona di silenzio, una zona
d’ombra impenetrabile e lontana dagli sguardi della collettività, in cui è possibile
commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità.
La psichiatria serve ad arginare qualsiasi critica sociale e a normalizzare quei
comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento
dello status quo, al fine di estendere il controllo sociale e la possibilità di
intervento normalizzante da parte delle istituzioni. In questi anni la falsa scienza
psichiatrica ha notevolmente ampliato il proprio campo d’intervento. Invadendo
le nostre esistenze, sminuisce le sofferenze umane riducendole a disturbi biochimici della mente, sempre più interpretati come patologie genetiche
del soggetto. Se è vero che assistiamo ad una sistematica
diffusione del disagio, è vero anche che le cause vanno
ricercate nella società in cui viviamo e nello stile di vita che ci
viene imposto, che esige sempre più efficienza e concorrenzialità.
In cambio ci viene offerta una precarietà sempre più diffusa che genera senso di inadeguatezza e ostacola prospettive di emancipazione. Come risposta a ciò abbiamo la medicalizzazione di quelli che sono gli eventi naturali della vita e di quei comportamenti non conformi agli standard sociali.
Le reazioni dell’individuo al carico di stress
cui si trova sottoposto vengono interpretate quali sintomi di malattia e le
risposte che riceviamo sono sempre dello stesso tipo: diagnosi-etichetta e cura
farmacologica.
Le pratiche e i dispositivi psichiatrici, che hanno portato alla morte di molte
persone in questi anni sono una diretta eredità dei manicomi, in quanto la legge
180, nonostante li abbia chiusi, ha però mantenuto inalterato il principio in base
al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale”
e rinchiuso, anche solo perchè rifiuta di curarsi - o rifiuta la tipologia di cura
impostagli - attraverso il ricovero coatto (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in
reparti specializzati e chiusi.
Con la chiusura dei manicomi, la psichiatria ha raggiunto più potere ed una
migliore accettazione sociale come scienza medica: essa è riuscita a sbarazzarsi
di camicie di forza, sbarre, e degli strumenti più violenti - nonostante continui
ad usare letti di contenzione ed elettroshock -, sostituendoli con cure massicce
ed obbligatorie di psicofarmaci, ma ha mantenuto le sue pratiche lesive della
libertà individuale.
Dal momento in cui viene presa in cura dal Servizio di Salute Mentale, il più delle
volte la persona finisce per perdere la propria autonomia, il proprio lavoro, la
gestione della propria vita, del proprio tempo, dei propri affetti, del proprio
corpo e la sua parola comincia ad avere sempre meno peso di fronte a quella di
medici e familiari. Se pensiamo che a questo si aggiungono i gravi problemi fisici
dovuti agli psicofarmaci - che tra l’altro provocano spesso ansia e depressione! -
o il trauma provocato da esperienze dolorose come un’interdizione, un TSO, la
reclusione immotivata, l’aggressività e le minacce subite in reparto, possiamo
capire il motivo dei tanti suicidi all’interno dei reparti o fuori.
Le grandi strutture manicomiali sono state dunque sostituite da più piccole
strutture capillarmente diffuse sul territorio, all’interno delle quali continuano
a perpetuarsi sia l’etichetta di “malato mentale” sia i metodi coercitivi e violenti
della psichiatria: come si moriva nei manicomi, si muore oggi nei reparti
psichiatrici e negli OPG, in circostanze sospette, oscure, che però non suscitano
alcun interesse nell’opinione pubblica e nei mass-media.
È però importante sottolineare come le morti in psichiatria non siano riconducibili
ad episodi di malasanità, termine che indica un dis-servizio, la mancanza di cure
da parte del sistema sanitario, ma al contrario sono tragiche conseguenze di
pratiche quotidianamente perpetrate all’interno dei reparti psichiatrici.
I TSO eseguiti spesso con violenza da forze dell’ordine e infermieri, così come il
legare al letto di contenzione un paziente sono prassi abituali, abusi che i pazienti
degli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) subiscono regolarmente e che
a volte portano anche alla morte. Come nel caso di Francesco Mastrogiovanni
(morto il 4 agosto del 2009 a Vallo della Lucania) e Giuseppe Casu (morto il 21
giugno 2006 a Cagliari) deceduti entrambi all’interno di reparti psichiatrici, in
regime di TSO, dopo essere stati sedati farmacologicamente e legati al letto per
giorni senza essere monitorati dal personale. Oppure può accadere che persone
recatesi in reparto volontariamente siano poi trattenute tramite pressioni
psicologiche e la minaccia di un provvedimento di TSO. A volte l’opera di
persuasione è supportata dalla violenza fisica, come nel caso di Edmond Idehen,
morto in reparto a Bologna il 26/05/07 mentre infermieri e poliziotti tentavano
di legarlo al letto, in seguito alla sue insistenti e legittime richieste di lasciare
l’ospedale, visto anche che vi era entrato volontariamente.
Altra pratica di cui abusa la psichiatria è l’obbligo delle cure, che tra l’altro si
riduce ad un bombardamento farmacologico, di durata indeterminata e imposto
senza le dovute informazioni e i dovuti controlli medici. Di tali psicofarmaci
vengono quasi sempre taciuti i gravi effetti collaterali che possono causare
anche la morte, come nel caso di una donna palermitana, (A.S. morta il 28 agosto
2006 a Palermo) precedentemente entrata in coma a causa dei farmaci; come il
giovanissimo Roberto Melino (morto il 12 giugno 2007 a Empoli) che era entrato
volontariamente in reparto ad Empoli ed è stato “aggredito” chimicamente dopo
aver espresso la volontà di uscire; ed infine come Sorin Calin, morto a Montecatini
Terme il 20 ottobre 2009 durante il tragitto dalla caserma dei carabinieri al reparto
a causa della somministrazione di un ansiolitico, il Midazolam, controindicato in
caso di contemporanea assunzione di alcool, motivo per cui era stato fermato.
Sono tutti decessi attribuiti dalla psichiatria e dalla giustizia a cause naturali
(arresto cardiocircolatorio e/o respiratorio), nonostante la giovane età e il buono
stato di salute delle vittime prima del ricovero, ma non può che rimanere il
dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato sulle quali è necessario
fare chiarezza!
L’invito è a rompere il silenzio, a denunciare gli abusi psichiatrici perpetrati ai
danni di individui troppo spesso impotenti perché intrappolati nella solitudine
psichiatrica, a distruggere quei miti di cui la psichiatria si è circondata e a spezzare il muro di silenzio che da sempre la circonda e la difende da attacchi esterni.