Recensione di Chiara Gazzola dell'opuscolo "Correnti di Guerra" su Sicilia Libertaria di giugno 2017
La psichiatria nasce con
l'intento di dare una veste scientifica al controllo di tutti i comportamenti
giudicati forme di criticità, in quanto potrebbero minare la
quiete sociale pianificata da ogni potere politico-economico. Avviene così,
ancor oggi in maniera sistematica soprattutto per le diagnosi inserite nei DSM
(i manuali delle malattie mentali redatti negli USA), che le condotte anomale
vengano tradotte nei termini di patologie mediche, in assenza di test
oggettivi che le comprovino. Uno degli esempi più eclatanti riguarda
l'omosessualità: fin dal positivismo, al giudizio morale negativo si aggiunse
la condanna scientifica ideata dall'antropologia criminale, che poi divenne una
vera e propria patologia psichiatrica descritta nel secondo DSM (1968); quando
nel 1980 fu pubblicato il DSM III, miracolosamente sparì: non era più una
malattia mentale, ma una devianza sociale o che altro? La maggior parte delle
diagnosi ha avuto il medesimo percorso poiché risponde ad esigenze dettate dal
sistema socio-economico che si avvale della permeabilità del determinismo nel
dare spiegazioni approssimative alle sofferenze psicologiche, confondendole ai
deficit neurologici. La psichiatria rimane estremamente coerente a se stessa
nel prestare il fianco agli obiettivi di altri apparati di potere. Questo
taglio analitico trova conferma in molte ricerche storiche: oggi abbiamo a
disposizione un prezioso studio che colma una lacuna sul connubio fra questa
specializzazione medica e l'apparato militare. Trattasi di un opuscolo
autoprodotto dal Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa (che per
“Sensibili alle foglie” aveva già curato: Elettroshock – La storia delle
terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute, 2014) firmato
da Marco Rossi dal titolo Correnti di guerra – Psichiatria militare e
faradizzazione durante la Prima guerra mondiale, 2017, pp. 40. La
pubblicazione è stata preceduta da un dibattito pubblico tenutosi a Volterra
qualche mese fa; l'autore infatti ribadisce: “Una ricerca non appartiene mai
soltanto a chi la firma: questa non fa eccezione. Infatti, è nata dalla
complice amicizia con il Collettivo Artaud e il gruppo Kronstadt di Volterra”.
I trattamenti psichiatrici sono spesso ideati per curare specifiche anomalie
comportamentali descritte utilizzando un'ambiguità terminologica che,
volutamente, crea una sovrapposizione fra sintomi e presunte malattie, in altre
parole: fra causa ed effetto. Il contesto analizzato da M. Rossi - la cruenta
guerra 1915-'18 - fra le sue conseguenze devastanti, registra casi esasperati
di sofferenza psichica che produssero l'allontanamento di numerosi militari
dagli scenari bellici affinché fossero rinchiusi nei manicomi, in particolare nei
reparti dedicati ai disertori come quello del S. Maria di Pietà di Roma. In
alcuni documenti dell'epoca si ribadisce che le condizioni di vita in trincea
possano causare forme di nevrosi, ma nei referti medici la fedeltà agli intenti
ideologici e patriottici risulta evidente dalla ripetizione del concetto: non
dipendente da cause di guerra. Ogni tragedia lacera profondamente
l'emotività, modifica sostanzialmente la percezione dell'esistenza: la retorica
del patriottismo perse concretezza al confronto diretto con l'esperienza del
terrore, quella paura intima vinse il mito del sacrificio eroico. “L'incontro
tra le due istituzioni totali – l'esercito e il manicomio – aveva avuto un
precedente significativo ai tempi della guerra in Libia (1911-1912), quando molti
soldati avevano perso il senno nelle sabbie desertiche” (…) “La
militarizzazione della psichiatria nazionale divenne quindi un fatto compiuto
con l'entrata in guerra dell'Italia nel maggio 1915” spiega l'autore. Fu così
che, a distanza di pochi mesi, 170 psichiatri furono inseriti a pieno titolo
nell'organico militare sotto la guida di A. Tamburini, presidente della Società
Freniatrica ed ex direttore di uno fra i più efficienti e storici manicomi
europei, il San Lazzaro di Reggio Emilia. Fu così che si inaugurarono i
neurocomi militari nei quali si poté assicurare ai graduati un trattamento
privilegiato; i soldati ricoverati furono circa 40000 “secondo le cifre
ufficiali ma probabilmente sottostimate” sottolinea l'autore che poi aggiunge:
“resta invece da accertare il numero, non meno rilevante, delle donne internate
in manicomio a causa di disturbi psichici determinati, più o meno direttamente,
dal contesto bellico”. L'opuscolo è breve, ma dettagliato e ben documentato. La
faradizzazione è l'utilizzo di corrente elettrica applicata su varie parti del
corpo, scroto compreso, ai renitenti al dovere del servizio militare che
manifestassero forme di psicosi, fossero essi simulatori, pederasti,
moralmente deboli, degenerati, imbecilli gravi, predisposti costituzionalmente
alle reazioni criminose, disertori e via dicendo fino ad evidenziare nella pazzia
ragionante, di lombrosiana memoria, la diagnosi più pertinente da
affibbiare agli antimilitaristi socialisti e anarchici. Si attuò un vero e
proprio programma di profilassi morale per scoprire e punire i frodatori, con
l'evidente obiettivo di rinviarli al più presto al fronte affinché fossero
ricollocati negli avanposti più rischiosi del combattimento in corso.
L'ideologia positivista, che sottende ai metodi intimidatori della
faradizzazione (anticiparono quanto avvenne nei conflitti armati successivi con
l'impiego sistematico dell'elettroshock), si evince da numerosi documenti e da
locuzioni come: “il mancato adattamento alla società militare era segno di incompletezza
biologica”; “gli uomini incapaci di uccidere erano un gruppo aberrante”; o
“l'incorreggibile, l'indisciplinato, il debole o chi è privo di senso morale
non può considerarsi normale” come scrisse lo psichiatra G. Antonini in La
questione della epurazione dall'esercito dei criminali. La ricerca
di Marco Rossi è completata dal confronto dell'utilizzo delle elettroterapie in
altri Paesi europei e da dati particolareggiati su alcune aree
territoriali, ad esempio il frenocomio San Girolamo di Volterra. Nell'opuscolo,
inoltre, viene sottolineato come tutte le sofferenze psicologiche dovute ai
traumi causati dai contesti bellici, ricondotte però dagli apparati di potere a
forme di debolezza congenita o infermità mentale, diagnosticate a
militari e civili (questo termine generico in tempo di guerra include
soprattutto le donne) abbiano ispirato i redattori del DSM III quando decisero
di classificare, con un lessico medico più aggiornato, i malesseri manifestati
dai reduci della guerra in Vietnam: nacque così il Post Traumatic Stress
Disorder che, grazie a dettagliate sotto-classificazioni, è il pretesto
sempre più utilizzato per contenere chimicamente testimoni e vittime di ogni
conflitto armato, nonché migranti che transitano nei cosiddetti luoghi di
accoglienza istituzionali. Anche in questo caso il ribaltamento causa-effetto,
sul quale la psichiatria ha sempre basato i propri protocolli, evidenzia il disagio
sull'individuo, evitando di mettere in discussione tutte le forme di
ingiustizia sociale, vera causa di ogni discriminazione e sofferenza.
L'approccio psichiatrico, anche quando sembra poco invasivo, non si occupa del
vissuto emozionale e fenomenologico delle persone che, al contrario, sono
considerate casi clinici. Basaglia ha scritto che un individuo da folle
diventa razionale quando lo si definisce malato: è la cultura manicomiale,
sempre viva nonostante si nasconda dietro un lessico rinnovato, a rendere
razionale il paziente psichiatrico e non perché viene guarito, ma perché
viene rinchiuso e curato. Le forme di questa coercizione riemergono ogni
volta che si toglie dignità ad una persona e si rinchiudono i suoi dubbi, le
sue emozioni, il suo corpo e le sue possibilità di scelta. La ricerca di Marco
Rossi è un tassello prezioso che dimostra – pur nel contesto specifico
analizzato – il ruolo e l'intento di una disciplina medica sempre disposta ad
incrementare il proprio profitto in alleanza agli altri apparati del potere.
Chiara Gazzola