DEFINISCI
MALTRATTAMENTO
“Definisci
bambino”: abbiamo ancora nelle orecchie la sciagurata domanda
pronunciata dal Presidente dell’associazione Amici di Israele,
rivolta durante un dibattito televisivo all’ allibito
interlocutore, per giustificare la strage di minori nella Striscia di
Gaza.
Queste
parole, che producono sdegno e disgusto, possono essere paragonate a
quelle pronunciate dall’avvocato Stefano Del Corso, difensore della
dottoressa Masoni, durante l’ultima udienza del processo Stella
Maris. L’avvocato ha domandato alla giudice e agli astanti di
definire la parola “maltrattamenti” in riferimento a quanto
accaduto tra le mura della struttura di Montalto di Fauglia. E non
era la prima volta! Altri avvocati nel corso del processo avevano
provato a sminuire e a derubricare gli efferati atti che sono stati
ripresi dalle telecamere dei carabinieri nell’estate del 2016 nel
refettorio della struttura. Secondo i legali degli imputati quei 284
episodi di botte, vessazioni, umiliazioni, documentati dalle
videocamere in quasi quattro mesi di riprese, non erano
maltrattamenti ma un semplice eccesso di mezzi di correzione.
Eppure
alcuni genitori quando sono stati chiamati dai carabinieri a vedere
per la prima volta le immagini dei propri figli malmenati,
strattonati e offesi verbalmente, si sono sentiti male; quando i
video sono stati presentati al processo molti astanti sono usciti
dall'aula; quando i giornalisti e i tecnici, che hanno prodotto il
reportage della Rai sui fatti della Stella Maris, hanno visto quelle
immagini le hanno definite “violenze inaudite su soggetti indifesi
e quindi meritevoli di una cura ancora maggiore”.
A
tutti era parso evidente cosa vuol dire “maltrattamento”, non
appariva così complicato definire il termine. Erano bastate le
immagini nella loro cruda evidenza, nella loro oggettiva
presentazione a spiegare che cosa è un maltrattamento.
Ma
per capire il senso di certe affermazioni che sembrano offendere il
buon senso, oltreché umiliare ancora una volta i ragazzi e i loro
familiari, bisogna riferirsi al codice penale e a quello che esso
prescrive. È lì che si gioca la vera partita giudiziaria, è
lì che il termine assume una valenza valoriale. Il maltrattamento
secondo il codice penale deve prevedere la presenza di atti abituali
o sistematici che cagionano sofferenze fisiche o morali: percosse,
violenze fisiche o sevizie; minacce o ingiurie gravi; “Comportamenti
ripetuti che arrecano danno morale o psicologico”. Queste condotte
devono avere come effetto la sofferenza fisica o morale per la
vittima anche senza la presenza di lesioni gravi.
Il
reato di maltrattamento ha dunque bisogno, per essere definito tale,
della “abitualità”, deve cioè essere ripetuto nel tempo, non
configurarsi come un episodio isolato.
Da
ciò si capisce perché gli avvocati delle difese abbiano teso a
parlare di singoli episodi non sistematici, a fare riferimento a
condotte isolate, cercando di dimostrare che i maltrattamenti erano
solo buffetti, al limite “eccesso di mezzi di correzione” o
“ingiurie”: reati che se venissero accolti come plausibili dalla
giudice Messina sarebbero già prescritti da tempo. E tale
accoglimento avrebbe dunque l’effetto di ridurre in una bolla di
sapone un processo andato avanti per anni con decine di persone
implicate tra imputati, parti civili, avvocati, consulenti.
Ma
la realtà è un’altra: come aveva scritto il Giudice dell’Udienza
Preliminare Giulio Cesare Cipolletta nella sentenza-ordinanza del
2019, dopo soli quattro giorni di riprese i video già documentavano
“atti di violenza fisica come schiaffi e strattoni oppure minacce
ed ingiurie, poste in essere in maniera del tutto gratuita e senza
riferimento a pregresse condizioni dei pazienti”. Col passare del
tempo quegli atti reiteratamente compiuti, nell'indifferenza degli
operatori che osservavano inerti la scena (a testimonianza di
un'abitualità fatta di violenze accettate e condivise,) hanno
dimostrato, secondo la requisitoria finale del Pubblico Ministero
Pelosi, la presenza di un sistema fortemente radicato.
Nella
sua arringa finale il PM ha posto l’accento sulla abitualità delle
condotte maltrattanti, sull’atteggiamento indecoroso e poco
professionale degli operatori Stella Maris, sul clima di paura che
dominava la struttura, sull’omertà che regnava in quelle stanze.
Tutto ciò ha reso possibile il fatto che la Stella Maris abbia
potuto assumere l’aspetto di una struttura concentrazionaria (cosa
peraltro ben esplicitata anche dalla relazione del Perito del
tribunale Alfredo Verde) dove la brutalità aveva preso il
sopravvento, dove le condotte violente erano sistematiche e non
episodiche, reiterate anche di fronte a un pubblico inerte. Cosa è
accaduto, ci chiediamo, al di là del refettorio, l'unico luogo dove
erano state posizionate le telecamere? Cosa poteva succedere nei
bagni, nelle camere, nei corridoi? Non è difficile immaginarlo. Il
Pubblico Ministero aveva ben definito come maltrattamenti quelle
“condotte plurime rivolte a soggetti indifesi e appartenenti alla
stessa comunità”, e in base a tale convinzione aveva chiesto le
relative pene fino a un massimo di cinque anni di reclusione.
"Il
più grande processo per maltrattamenti ai disabili in Italia"
(come era stato definito dal documentario che la Rai ha messo in onda
due anni fa) che sta lentamente volgendo alla conclusione, è anche
quello che ha portato alla luce la pratica disumanizzante,
degradante, brutale dell'"arrotolamento" degli ospiti
ritenuti recalcitranti, oppositori, ingestibili, all'interno di
tappeti comperati per l'occasione all'Ikea. E della difesa pubblica
di questa pratica da parte di avvocati, testimoni e imputati, che
l'hanno rivendicata addirittura come "strumento dolce",
come una normale routine da adottare per il bene dei "pazienti".
Anche nel corso dell'ultima udienza c'è stato chi ha avuto la
spudoratezza di definire il tappeto contenitivo un "presidio di
civiltà". Come Collettivo abbiamo denunciato e ribadito in
tutte le sedi che non ci sono ragioni che possano giustificare una
violenza del genere. Che non si possono arrotolare esseri umani in un
tappeto. Che le pratiche manicomiali non dovrebbero mai trovare
spazio. Che le persone non si legano, mai.
La
negazione e il ridimensionamento dei maltrattamenti (come purtroppo è
accaduto anche nell’ultima udienza) e della loro reiterazione e
continuità di fatto, così come il tentativo di ridurre tutto a
singoli episodi, decontestualizzandoli e depotenziandoli,
rappresentano l'ennesimo schiaffo intollerabile alle sacrosante
aspettative di giustizia delle vittime e delle loro famiglie.
Martedì
4 novembre 2025, molto probabilmente il giudice dovrebbe emettere
sentenza di primo grado. Invitiamo tutte/i a partecipare al PRESIDIO
in SOLIDARIETÀ alle VITTIME dei MALTRATTAMENTI MARTEDÌ 4 novembre
ore 10.30 c/o il Tribunale di Pisa in Piazza della Repubblica.
Collettivo
Antipsichiatrico Antonin Artaud
Collettivo
Antipsichiatrico Antonin Artaud
via
San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org
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